I segreti di Giverny, capolavoro di Claude Monet
Questo sentiero dei Palmipedoni esce da Parigi per condurre alla scoperta di un Paese delle Meraviglie unico nel suo genere, dove luce, ombra e colori sono protagonisti incontrastati.
In questo articolo, ho scelto di raccogliere le storie raccolte lungo i sentieri di quest’opera d’arte senza piedistallo, né cornice: il Giardino di Giverny.
L’autore di questa meraviglia a cavallo tra natura e visione d’artista è Claude Monet (1840-1926), il celebre pittore che fu una delle icone del movimento artistico conosciuto come Impressionismo.
Monet visse a Giverny dal 1883 fino alla sua morte, ossia 43 lunghi anni.
Il suo giardino, costruito in anni di passione, dedizione e finanche ossessione, viene oggi fedelmente preservato da una squadra di conservatori, storici dell’arte, giardinieri e architetti.
Tra le sue aiuole fiorite è possibile cogliere non solo le percezioni visive per cui fu concepito, ma anche la sensazione ben più sottile che una parte di lui continui a viverci, vibrando di luce, sbocciando e appassendo assieme ai suoi fiori.
Al momento dell’acquisto, attorno alla casa color rosa di Giverny non sorgeva che un orto, qualche albero da frutto e un viale costeggiato da cipressi e abeti. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quel frammento sperduto di campagna normanna, un giorno, sarebbe diventato celebre nel mondo.
Monet iniziò da subito a trasformare il luogo secondo il proprio gusto, ma soprattutto per soddisfare le sue necessità artistiche.
Quando gli abeti di fronte alla casa vennero abbattuti per far spazio alla celebre galleria di piante rampicanti, la seconda moglie del pittore, Alice, sospirò: dopo discussioni interminabili, aveva dovuto rinunciare ai suoi alberi preferiti, del resto il cocciuto Claude era abituato a ottenere quello che voleva – se non subito – prima o poi.
Claude Monet creò il suo giardino un fiore alla volta, progettando effetti pittorici, prospettive, zone d’ombra e di luce, fino a comporre aiuole rettangolari di fiori ordinati per colore, un po’ come se si fosse trattato dei settori di una tavolozza.
Nelle giornate di pioggia, non era raro udire le spaventose sfuriate di Monet contro il maltempo, maledetto guastafeste che gli impediva di uscire per dipingere in giardino! Non so cosa sperasse di ottenere, forse di spronare il timido sole di Normandia a farsi vedere, ad obbedirgli?
Le “impressioni” sensoriali di cui Monet aveva assoluto bisogno per realizzare le sue opere erano legate ai ritmi della natura e seguivano l’andamento delle stagioni, delle fioriture, delle foschie, dell’inclinazione del sole, ma anche del momento del giorno.
Era prassi comune per lui iniziare un quadro e dopo un quarto d’ora cambiare tela per ricominciare: la luce era cambiata, il paesaggio non aveva più nulla a che vedere con quello di prima.
“… Insomma, a forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare…”
Claude Monet
Il giardino di Giverny venne progettato con perizia meticolosa, tenendo in considerazione il periodo delle fioriture e il comportamento della luce solare. L’aspetto del giardino può risultare quasi irriconoscibile da una stagione all’altra!
Ora, lavorare come giardiniere alle dipendenze di Claude Monet, il quale pretendeva che i fiori sbocciassero nel momento più conveniente ai suoi progetti pittorici, poteva rivelarsi un’esperienza al di là dell’umana pazienza. Eppure, senza un’ostinazione cieca come la sua, non potremmo forse apprezzare un risultato altrettanto incantevole.
Dieci anni dopo il suo arrivo a Giverny, Monet iniziò a dar vita al suo progetto più ambizioso fatto
«di acqua, di ninfee, di piante, ma su una superficie molto estesa».
Per realizzare ciò che aveva in mente, il pittore necessitava innanzitutto del modello perfetto da cui partire.
Il giardino di Giverny dunque si ampliò per arricchirsi di uno stagno, uno specchio danzante in grado di intrecciare continuamente luci, colori e foschie e suggerire così sempre nuove tele, una visione definita in ogni dettaglio, fino all’ultimo rametto, petalo, ombra. Un giardiniere venne specificamente incaricato di eliminare le foglie cadute, una ad una.
La passione di Claude Monet per l’arte giapponese è risaputa. Il nuovo stagno divenne l’occasione per circondarsi di quelle forme – in particolare quelle caratteristiche dei ponti – che tanto aveva ammirato nelle stampe collezionate lungo il corso degli anni (se ne contano circa 250!).
Lo stagno da solo, tuttavia, non era sufficiente a consentirgli di realizzare ciò che aveva in mente. Monet aveva in mente «superfici molto estese» e dunque il primo atelier di Giverny non era più sufficiente a contenere i suoi ambiziosi progetti.
Il progetto delle Nymphéas richiese uno spazio appositamente studiato per contenere le gigantesche tele che avrebbero meravigliato il mondo (oggi è l’ambiente che ospita il negozio di souvenirs).
Fra quelle alte mura e sui quasi 300 metri quadrati del nuovo atelier, Claude Monet intendeva sfidare il Tempo intrappolando i capolavori effimeri dell’acqua sulla tela.
L’ossessione per lo scorrere del Tempo, il mutare delle percezioni e il tentativo continuo di afferrare l’istante costituirono il fulcro di tutto il lavoro di Claude Monet.
“Il soggetto è secondario, quel che voglio riprodurre è ciò che si trova tra il soggetto e me stesso.”
Monet iniziò a lavorare alle grandi tele delle Ninfee verso la fine degli anni Novanta del XIX secolo, ma i colpi inferti dal destino e l’arrivo della Grande Guerra misero a serio rischio il compimento del progetto. Nel 1911 era morta Alice e tre anni dopo l’artista aveva seppellito il suo secondo figlio, Jean.
Claude aveva quasi perso la voglia di dipingere.
Dobbiamo all’opera di convincimento del suo caro amico, il celebre Georges Clemenceau (1841-1929), se oggi possiamo godere del canto del cigno di Monet.
“… gli elementi della natura… hanno qualcosa da dirci, ma non lo direbbero senza Monet.”
Georges Clemenceau
Per tutta la durata della Grande Guerra, Monet dipinse senza sosta.
Per celebrare la vittoria, decise di fare dono alla Stato di due pannelli delle Ninfee (11 novembre 1918) e lo comunicò a Clemenceau, allora presidente del Consiglio, il quale si precipitò a Giverny per convincere l’amico a donare invece l’intero ciclo.
Il pittore acconsentì, ma le due famose sale ovali appositamente create per ospitare le tele al museo dell’Orangerie non saranno inaugurate prima del maggio 1927. La consegna era avvenuta l’anno prima, quando Monet non era più in grado di dipingere, ma il ciclo era per lui da considerarsi incompleto.
Quando Monet esalò l’ultimo respiro, il corpo venne esposto, coperto da un drappo nero, nella cucina di Giverny.
Al suo arrivo, Clemenceau, ben conoscendo l’avversione del suo amico per quel non-colore, levò d’impeto il drappo e lo sostituì con le tende fiorite della stanza:
«Pas de noir pour Monet!»
(‘Niente nero per Monet!’)
Queste sono solo alcune delle mille storie di Giverny. Vi invito a scoprirne ancora, ma attenzione: può accedere che cambino con le stagioni…