Il coraggio straordinario di Madame de Lavalette
Questa è la storia incredibile dell’eroismo di una donna innamorata. Si tratta di Émilie-Louise de Lavalette (1781-1855), nata Beauharnais.
Il suo cognome forse vi suonerà familiare per averlo incontrato nei libri di storia. Émilie-Louise era in effetti la nipote della famosa Joséphine de Beauharnais (1763-1814), prima moglie e grande amore di Napoleone Bonaparte.
Da giovanissima, Émilie si innamorò del fratello minore dell’imperatore, Luigi Bonaparte, che la ricambiava teneramente.
I due sognavano di sposarsi, ma Napoleone non volle nemmeno sentirne parlare. La ragione? Émilie era la figlia di un emigrato, parbleau!
In effetti, durante la Rivoluzione francese, il marchese François de Beauharnais, padre della contessa, era fuggito dalla Francia onde evitare la sorte a cui il suo sangue blu lo avrebbe condannato – una sorte sicura come la morte, possiamo ben dirlo.
Il marchese de Beauharnais era dunque considerato un traditore e Napoleone, che si vantava d’aver combattuto per gli ideali della Rivoluzione, non poteva permettere che suo fratello ne sposasse la figlia. Questione di immagine!
Il fragile Luigi si trovò dunque costretto a rinunciare ai suoi progetti romantici per sposare Hortense, la cugina di Émilie, figlia di zia Joséphine.
Eppure, anni più tardi, Luigi scrisse e pubblicò un romanzo dal titolo eloquente – “Marie ou les peines de l’amour” (“Maria o le pene dell’amore”) – segno che Émilie non era stata dimenticata.
Vista la sua posizione, Émilie fu praticamente costretta ad accettare la proposta di matrimonio del generale Antoine-Marie Chamans de Lavalette (1769-1830), a cui Napoleone aveva conferito il titolo di conte.
Lei aveva diciassette anni, lui trenta.
Com’è facile immaginare, in principio Émilie non mostrò particolare entusiasmo per quell’unione forzata, eppure i fatti ci dicono che la loro relazione, a un certo punto, doveva aver subito un cambio di rotta. Da che mondo e mondo, non si rischia la propria vita per qualcuno di cui non ci importa niente!
La fortuna della coppia doveva seguire quella dell’imperatore e così, finché Napoleone fu al potere, il conte de Lavalette e sua moglie furono ai vertici della società.
Émilie, in particolare, era dama d’onore dell’imperatrice. Jacques-Louis David la ritrasse nella mastodontica tela, “L’incoronazione di Napoleone”(1805-1807), nell’atto di reggere il mantello di Joséphine.
Quando Bonaparte venne deposto, il conte decise di non abbandonarlo e di contribuire segretamente al suo ritorno (mi riferisco ai famosi 100 giorni). L’Impero però, come sappiamo, era destinato a cadere una seconda volta.
Col ritorno al trono definitivo dei Borbone, il conte venne arrestato con l’accusa di alto tradimento e rinchiuso alla Conciergerie, anche detta “l’anticamera della ghigliottina” (1815).
Nei giorni che seguirono, la contessa de Lavalette vagò come un’anima in pena, il volto rigato di lacrime, per le sale del palazzo reale (le Tuileries).
Il re Louis XVIII aveva rifiutato di riceverla, ma Émilie non intendeva arrendersi: voleva la grazia per suo marito.
Il duca di Ragusa, amico dei Lavalette, osò farla nascondere nei suoi appartamenti pur di consentirle un incontro con la famiglia reale.
Quando l’occasione giunse, la contessa si gettò ai piedi di Louis XVIII, il quale ricambiò il suo slancio con un gelido “vi compatisco, Madame“.
Émilie afferrò allora la veste della duchessa d’Angoulême, la famosa Madame Royale, primogenita dei sovrani ghigliottinati sotto la Rivoluzione (Louis XVI e Marie-Antoinette).
Non era la pietà che mancava alla duchessa, al contrario. Madame Royale sapeva bene che una sua parola avrebbe potuto salvare il conte, ma esporsi per un personaggio così strettamente legato ai Bonaparte l’avrebbe gravemente compromessa con la fazione realista, i suoi più ferventi sostenitori.
La duchessa d’Angoulême si riprese dunque il lembo della veste e proseguì: per il conte non ci sarebbe stato alcun perdono. La politica è sempre politica, il periodo storico conta davvero poco!
Émilie prese allora la decisione più inaspettata di tutte: se nessuno era disposto a salvare suo marito, ci avrebbe pensato lei stessa.
Il conte inizialmente si oppose, considerati soprattutto i rischi a cui si sarebbe esposta sua moglie, ma Émilie fu irremovibile. Le lacrime fecero il resto.
Il giorno dopo la contessa si recò alla Conciergerie con sua figlia Joséphine, che allora aveva appena tredici anni, per cenare con suo marito per l’ultima volta.
Approfittando dei pochi istanti di intimità concessi alla coppia, i due sposi si scambiarono gli abiti. La contessa aveva scelto una lunga mantella e un’ampia cuffia con velo che avrebbero camuffato la figura del marito.
L’impresa non era affatto semplice: lei era alta e sottile, lui basso e robusto.
Inoltre, la cuffia era ornata da lunghe piume e le porte della prigione erano strette e basse, dunque Émilie raccomandò al marito e a sua figlia di non dimenticare di abbassarsi ad ogni passaggio.
Per evitare di prendere il braccio di una guardia che aiutava sempre la contessa ad attraversare la corte e a montare in vettura, il conte era stato avvisato di fingere un malore, una crisi di pianto, così che la piccola Joséphine avesse potuto accorrere e prendere il suo posto.
Incredibilmente, il piano riuscì.
Il conte si salvò, ma sua moglie non sarebbe più stata la stessa: i due mesi di prigione che dovette scontare spezzarono definitivamente il suo equilibrio già provato.
La paura, la solitudine, i continui interrogatori e i rigori della reclusione ne fecero l’ombra del suo stesso terrore. Rilasciata in libertà provvisoria per via del suo stato di salute, rientrò a casa afflitta da manie di persecuzione.
Non si fidava più di nessuno, parlava lontana da pareti e caminetti convinta di essere continuamente spiata. Si convinse dell’infedeltà del marito in esilio. Quando il conte tornò, nel 1822, lei non lo riconobbe.
L’unica soluzione possibile fu quella di portarla dal dottor Esprit Blanche, che aveva aperto il suo ricovero per alienati mentali a Montmartre da poco più di un anno.
Qui avvenne quella che venne definita “una guarigione miracolosa” e la contessa poté ritornare a casa decisamente migliorata, anche se la malinconia non l’abbandonerà mai, come ricordano le parole del pittore Eugène Delacroix:
“Quante cose da dire su questa defunta, morta da quarant’anni, fantasma impotente nel deterioramento profondo in cui l’abbiamo vista!“
Se per avere coraggio occorre prima di tutto avere paura, Madame de Lavalette dimostrò quel che può essere definito, senza timore di esagerare, puro eroismo.