Simbolismo: l’arte al confine del sogno
Al Musée Bourdelle si è da poco conclusa l’esposizione temporanea intitolata Les Contes étranges de Niels Hansen Jacobsen, ‘Gli strani racconti di Niels Hansen Jacobsen’.
Non conoscevo Jacobsen, ma avevo riconosciuto qualche nome nella lista di artisti che frequentarono il suo atelier in boulevard Arago, tra cui Eugène Grasset (1845-1917), un assiduo frequentatore del Cabaret du Chat Noir che ben conosciamo.
Così mi sono precipitata prima che la mostra terminasse e posso affermare che l’esperienza è valsa la corsa, tanto più che ho potuto scoprire un movimento artistico a me caro da un’angolatura insolita.
Riporto di seguito alcune impressioni, ma vi avviso che potrei perdermi per i sentieri della fantasia… D’altro canto siamo ospiti dei simbolisti!
Durante la seconda metà del 1800, Parigi conobbe un paesaggio fuligginoso.
La vita delle fabbriche, le lotte sociali e le prime produzioni di oggetti “in serie” annunciavano l’affermarsi dell’odierna società dei consumi.
Così il progresso divorava il passato, mutando il ritmo stesso della vita quotidiana e sollevando nei parigini reazioni ambigue, tra cui una sorta di entusiasmo inquieto.
Un quesito in particolare tormentava il mondo dell’arte e della letteratura: quale ruolo poteva esistere per loro in una società ossessionata dal profitto, dalla scienza e dalla tecnica?
All’ombra dei Salons e degli ambienti intellettuali ufficiali, iniziarono così a fiorire circoli letterari e gruppi di artisti in cerca di una risposta.
Una parte di loro decise di dedicarsi alla fedele rappresentazione della realtà quotidiana, come se avvertissero la necessità di scomporla in istanti, per rallentarla forse, così da fissarne il ricordo sulla pagina, nel marmo, in una canzone oppure su una tela.
Questi movimenti (impressionisti, naturalisti, realisti…) rifiutavano di idealizzare la realtà e di seguire i rigidi canoni di bellezza difesi dagli ambienti accademici.
Accanto a questo tipo di ricerca ne sorse una seconda dall’approccio diametralmente opposto. Se la prima tentava di riprendere il controllo sulla realtà in mutamento analizzandola, la seconda scelse di trascenderla. Ciò non toglie l’origine comune dei due impulsi, ossia quella di un profondo senso di smarrimento.
La seconda tendenza, quella del movimento simbolista, ricercava la missione dell’arte e della letteratura nell’esplorazione della dimensione inconscia, sovrannaturale, onirica.
Grazie a sapienti combinazioni di simboli e di archetipi, l’arte aveva il compito di aprire dei “portali” che la coscienza poteva decidere di attraversare, nel tentativo di scoprire e affrontare le proprie zone oscure.
Dal 1892 al 1902 attorno all’atelier dello scultore danese Niels Hansen Jacobsen (1861-1941), in boulevard Arago (XIII arrondissement), si radunarono alcuni di questi ‘esploratori’ della dimensione irrazionale.
Oggi, la sede fisica di quella singolare fornace artistica esiste ancora, benché non produca più frammenti di sogno. Si tratta di alcuni padiglioni superstiti e rimaneggiati dell’Esposizione universale del 1878 ed è conosciuta come Cité fleurie, ‘Città fiorita’.
All’ingresso, su una targa, si legge che le costruzioni ospitarono gli scultori Auguste Rodin, Antoine Bourdelle, i pittori Paul Gaugin, Amedeo Modigliani… Non viene fatta alcuna menzione a Jacobson.
I simbolisti che si riunivano all’atelier di boulevard Arago erano solo in parte francesi. Molti provenivano dalla comunità artistica danese e nordamericana che trovava a Parigi le migliori scuole.
In generale, aggirandosi tra le loro opere, si ha la sensazione di aggirarsi in una dimensione a metà tra i cabinets des curiosités del XVIII secolo e il laboratorio di uno stregone.
Per i simbolisti, la mitologia, il folklore e i racconti biblici erano sorgenti inesauribili a cui attingere per comporre enigmi dall’aspetto di sogno.
È il caso, ad esempio, del fauno di Jean Carriès (1855-1894), con gli occhi chiusi ma le orecchie tese, in ascolto, simile all’artista che cerca ispirazione in dimensioni profonde, fugaci, al confine del sogno.
Oppure si può considerare il troll che Jacobsen prese in prestito dalla mitologia scandinava.
Questa creatura delle fiabe antiche iscrisse Jacobsen nella corrente artistica ispirata dall’opera di Paul Gaugin, poi sviluppata dai Nabis, un singolare gruppo di artisti che abbiamo già conosciuto (1891-1900).
La tendenza di tale corrente era quella di emancipare l’arte dalla rappresentazione del reale “nudo e crudo”.
Di conseguenza, la funzione decorativa assunse un ruolo di primo piano, fino a raggiungere il suo apogeo col movimento artistico più celebre di inizio XX secolo. Basta un’occhiata all’opera intitolata Arabesco poetico di Maurice Denis, pittore nabis, per riconoscere l’annuncio degli arabeschi dell’Art nouveau.
Naturalmente non potevano mancare i riferimenti alle fiabe, scrigni di tradizione, d’immaginario collettivo e di simboli senza tempo. Nel caso di Jacobsen, fu La Sirenetta (1837), opera dello scrittore suo connazionale Hans Christian Andersen, a fungere da ispirazione.
Lo stile decorativo della scultura si avvicina molto all’Art nouveau, eppure il personaggio della Sirenetta non presenta affatto le caratteristiche tipiche della femme fatale tanto in voga agli inizi del XX secolo anzi, di “fatale” la povera ondina conobbe solamente l’amore non corrisposto di un essere umano.
In boulevard Arago, Niels Hansen Jacobsen e il ceramista-scultore Jean Carriès, con la perizia e la dedizione propria degli antichi alchimisti, sperimentarono gli effetti imprevedibili delle diverse combinazioni in fornace di gres, argille, smalti e additivi vari.
D’altro canto, gli splendidi vasi in gres e le maschere del teatro Nô provenienti dal Giappone, in mostra all’Esposizione universale del 1878, avevano innescato una vera rivoluzione artistica.
Il gres l’argilla consentivano all’artista di dedicarsi ad opere di piccolo formato e quindi di presiedere a tutte le fasi della realizzazione. Nella scultura tradizionale invece, sarebbe stato costretto a cedere il posto a un fonditore nel caso del bronzo, oppure ad allievi e assistenti nel caso del marmo.
Carriès e Jacobsen svilupparono stili molto differenti, ma ciascuno di loro produsse pezzi unici e irripetibili dall’aspetto “organico”, che mi hanno fatto pensare alla leggenda ebraica del Golem, il colosso d’argilla vivente plasmato attraverso le arti magiche.
L’inconscio può ispirare immagini tanto attraenti quanto inquietanti, poiché è libero di giocare coi confini naturali. Lo sapeva bene Jean Carriès, che osò sfidare quelli esistenti tra le specie del regno animale con la sua Rana dalle orecchie di lepre.
Il mostro – che personalmente trovo caruccio – è reso con un effetto tanto naturale da far sorgere il paradossale sospetto che possa esistere realmente, in qualche terra remota e inesplorata.
Lo stesso dicasi per queste Maschere accollate (1888-1894), sempre di Jean Carriès, che più che oggetti, paiono volti umani veri e propri. Viene naturale interrogarsi sulla natura della maschera, sul confine inafferrabile che esisterebbe tra essa e l’individuo autentico: dove finisce una ed inizia l’altro?
Esiste una natura autentica dell’individuo, considerato che la stessa parola persona deriva dal verbo latino per-sonare, ossia ‘suonare attraverso’, riferito proprio alle maschere teatrali?
Vi lascio in buona compagnia con i quesiti ispirati dall’arte simbolista, e vi attendo per il prossimo tè dal Cappellaio Matto.