Charlotte Corday: il processo surreale di una bella assassina
Il caso di Charlotte Corday conserva ancora oggi, dopo più di duecento anni, qualche cosa di incredibile.
Proviamo ad inquadrare – almeno in parte – l’enigmatica natura di mademoiselle Marie Anne Charlotte de Corday d’Armont (1768-1793), originaria di una famiglia povera ma di nobili origini, risalenti addirittura al “Grande Corneille”, il drammaturgo che incarnò – assieme a Molière e Racine– lo spirito classicista dell’Ancien Régime.
Per venticinque anni, la brava Charlotte non aveva mai rappresentato un problema per nessuno.
Rinchiusa tra le mura di un’abbazia reale di Caen che raccoglieva ragazze povere uscite dalla nobiltà, Charlotte era avviata alla vita religiosa, eppure la sua mente vivace si dedicava allo studio della filosofia e delle nuove idee illuministe. La giovane ammirava gli scritti di Rousseau e si era convinta, con l’avvento della Rivoluzione francese, della necessità di dare una Costituzione al Paese.
Nessuna macchia nel suo passato, fatto di studio e riservatezza. Unico neo, un carattere estremamente deciso. Un suo parente scrisse di lei:
«Charlotte aveva il fuoco sacro dell’indipendenza, le sue idee erano ferme e assolute. Ella faceva quello che voleva. Non la si poteva contraddire, ciò era inutile, non aveva mai dei dubbi, mai delle incertezze».
Da “Les Grandes Heures de la Révolution”
di G. Lenotre André Castelot,
tomo III
Ma la Rivoluzione prese una piega imprevista: gli ordini religiosi vennero soppressi e così Charlotte fu costretta ad abbandonare l’abbazia.
Un giorno dopo l’altro, da Parigi, giungevano notizie raccapriccianti che scardinavano ogni certezza, colpendo nel vivo lo spirito religioso e monarchico di Charlotte. La tentata fuga del re – un colpo duro per chi sognava di fare della Francia una monarchia costituzionale su modello inglese – il sanguinoso assalto del popolo al palazzo reale delle Tuileries, l’abolizione della monarchia, l’incarcerazione della famiglia reale, gli orrori dei massacri di settembre e, più tardi, l’esecuzione del sovrano stesso, Louis XVI (21 gennaio 1793), sconvolsero profondamente gli animi dei francesi meno radicali.
Il disprezzo che Charlotte nutriva per le fazioni più estremiste della Convenzione nazionale raggiunse il culmine. Un nome in particolare accompagnava puntualmente ogni orrore di cui la città di Caen veniva informata, quello del giornalista e deputato alla Convenzione Jean-Paul Marat.
Nella sua celebre rivista, L’Ami du Peuple (‘L’Amico del Popolo’), Marat si era felicitato di ogni azione violenta intrapresa ai danni dei “nemici della Rivoluzione” – massacri di settembre compresi – definendole “misure necessarie al bene della Nazione”.
Quando, nel giugno del 1793, Marat richiese ed ottenne la proscrizione degli avversari politici del suo partito, i Girondini per cui Charlotte simpatizzava, il vaso finalmente traboccò. Accusati del reato tanto grave quanto presunto di cospirazione, i girondini caduti nelle mani del Tribunale rivoluzionario finirono in gran parte davanti alla ghigliottina.
L’avvocato Chauveau-Lagarde – di cui sto tracciando l’incredibile vicenda in una serie di articoli di cui questo fa parte e che tra poco entrerà in scena – fu uno dei difensori che tentarono, senza successo, di salvare la vita ai malcapitati.
In quel momento, la giovane si sentì chiamata ad agire, a fermare la follia che avrebbe altrimenti perduto il suo Paese. Il suo sacrificio avrebbe a un tempo salvato la Patria e magari ripristinato, agli occhi dei francesi moderati, l’onore di cui la sua famiglia era stata privata.
Passionale di indole ma fredda di mente, senza confidarsi ad anima viva, la giovane venticinquenne lasciò Caen tutta sola per raggiungere la capitale in un giorno di luglio del 1793.
Giunta a Parigi, mademoiselle Corday si diresse subito nel centro della vita e dei commerci di allora, il celebre Palais-Royal, a due passi dal Louvre.
Ad ogni piano occorre uno strumento appropriato e così, in una delle botteghe ospitate dalle gallerie del palazzo, Charlotte acquistò un lungo coltello senza sollevare il minimo sospetto. In tutta la vicenda, i suoi unici complici furono un viso d’angelo e un perfetto autocontrollo.
Pronta a colpire, Charlotte scrisse più volte al cittadino Marat domandando un’udienza privata, ma senza successo. Decise allora di comporre un biglietto in cui dichiarava di essere in possesso d’una lista di nomi di cospiratori che operavano a Caen. Prese il biglietto, nascose il coltello nel corsetto e si recò di persona a casa de “l’Amico del Popolo”, rue des Cordeliers (oggi corrisponde alla zona de l’École de Médecine sulla riva sinistra della Senna, VI arrondissement).
Charlotte bussò alla porta e porse il biglietto, ma la compagna del deputato si rifiutò di farla entrare: il cittadino Marat stava facendo il bagno (una cura in realtà, dovuta a una malattia della pelle)!
Disturbato dal trambusto, l’ignaro deputato domandò spiegazioni dalla vasca. Il biglietto mendace finì così nelle sue mani e, pochi attimi dopo, Charlotte venne introdotta nella stanza. I due vennero lasciati soli. Quali pericolose intenzioni avrebbe potuto mai nascondere la bella di Caen? La porta si chiuse e Marat domandò – penna alla mano – i nomi dei cospiratori che la visitatrice aveva promesso.
La Corday non batté ciglio, estrasse il coltello e lo colpì al cuore.
Senza nemmeno tentare la fuga, coperta del sangue del “mostro”, la giovane rimase in attesa di essere arrestata. Alle grida della compagna di Marat, accorse una folla che per puro miracolo non la linciò.
Dopo un surreale interrogatorio in cui Charlotte confessò tranquillamente d’aver agito intenzionalmente, premeditatamente e in completa autonomia, il processo ebbe inizio.
La notizia aveva fatto il giro della capitale in un baleno e l’aula era piena da scoppiare, tuttavia la delusione del pubblico fu grande quando, invece della feroce arpia che tutti si aspettavano, comparve la bella, giovane, calma e garbata Charlotte Corday.
«Ho vendicato molte vittime innocenti, ho prevenuto molti altri disastri»,
aveva scritto la prigioniera il giorno prima per spiegare il suo gesto.
Fu in quel momento che i destini del nostro Chauveau-Lagarde (1756-1841) – uno dei difensori d’ufficio del Tribunale rivoluzionario che di lì a breve si sarebbe occupato della difesa della regina in persona – e della giovane assassina si incrociarono.
(Da leggere anche Chauveau-Lagarde: l’avvocato che sfidò la Rivoluzione)
L’avvocato stava presenziando al processo spinto soprattutto dalla curiosità: la morte di Marat – suo acerrimo nemico – non lo aveva afflitto, ma la follia del gesto della Corday lo aveva turbato.
All’inizio della seduta, venne fatto presente al presidente del tribunale Montané che l’accusata mancava di un difensore. Montané si guardò attorno e fu allora che notò Lagarde. Dopo avergli fatto cenno di avvicinarsi, il presidente lo incaricò della difesa della Corday… seduta stante!
Lagarde accettò non senza un certo imbarazzo. Per un momento, incrociò lo sguardo glaciale di Charlotte: «Non provarci», pareva dire. Charlotte Corday non voleva essere giustificata, non voleva essere assolta, non voleva aiuto. La sua convinzione era quella d’aver agito nel giusto eliminando «lo strazio della Francia». Non aveva nulla di cui pentirsi.
Il caso era già perso in partenza, Lagarde lo sapeva bene, tanto più che durante la deposizione la Corday dimostrò una volta di più di non aver bisogno di alcuna difesa. Charlotte aveva accuratamente preparato le proprie risposte, tanto limpide e coerenti da poter essere trascritte sul posto, per quanto intrise di fanatismo.
Lagarde dovette realizzare rapidamente di non trovarsi di fronte a una stupida, né a una sprovveduta: la Corday sapeva che il Tribunale rivoluzionario concedeva ai processi una pubblicità che aveva fatto della giustizia un vero show. Perché non approfittarne?
Durante l’udienza, il presidente Montané indirizzò a Lagarde un biglietto in cui gli consigliava di basare la difesa sulla follia, unica possibilità per salvare la vita dell’accusata. Poco più tardi, questa “gentilezza” costò la testa al presidente, riconosciuto colpevole di voler salvare una pericolosa cospiratrice. Bel clima disteso in cui lavorare, non c’è che dire!
La difesa finale di Lagarde sorprese tutti.
L’avvocato non umiliò Charlotte dimostrandone la pazzia, tanto più che se fosse riuscito a risparmiarle la ghigliottina, non avrebbe potuto impedirle di venir rinchiusa a vita in un asilo per alienati mentali.
Lagarde non provò nemmeno a negare la palese premeditazione del gesto, ma parlò solamente de «l’esaltazione del fanatismo politico» che aveva «messo il pugnale nella mano» della Corday. La calma e l’abnegazione dell’accusata erano prove evidenti, secondo lui, che non vi fosse altra causa alla base del suo gesto insano. Furono in pochi a realizzare l’effetto che quella difesa inconsistente avrebbe avuto di lì a breve: Lagarde, avendo perfettamente compreso il desiderio di Charlotte, invece di descrivere una pericolosa pazza, aveva dipinto agli occhi del pubblico una martire.
Al termine del processo – non è necessario dirvi quale fu la sentenza, vero? –, la Corday chiese di potersi avvicinare al suo difensore per dirgli:
«Monsieur, vi ringrazio del coraggio con il quale mi avete difeso in modo degno di voi e di me».
Charlotte Corday si diresse al patibolo senza un cedimento, né un segno di paura, certa di aver compiuto il suo dovere.
Prima di partire, aveva scritto a suo padre:
“Addio mio caro papà, vi prego di dimenticarmi, o piuttosto di gioire della mia sorte la cui causa è bella. [… ]Non dimenticate questo verso di Corneille: «Il crimine, e non il patibolo, fa la vergogna».
In breve tempo, la giovane dal viso d’angelo divenne l’incarnazione sublime della controrivoluzione in tutta Europa, il simbolo di un’anima dal sangue nobile che si offre in sacrifico per difendere i valori in cui crede.
D’altra parte, con il suo gesto, Charlotte non arrestò – come era convinta – il turbine di violenza che stava minacciando il suo Paese anzi, lo accelerò avendo fatto di Marat, a sua volta, un martire della Rivoluzione. L’impresa della Corday alimentò il terrore del complotto monarchico minacciante la nuova Repubblica ed il suo atto estremo riuscì nel suo intento solo a metà.
Per l’avvocato della cause perse, le sfide più dure erano appena iniziate. La più spaventosa sarebbe giunta quello stesso autunno 1793, in cui Lagarde avrebbe tentato di salvare la vita, o quanto meno di garantire una difesa degna, alla deposta sovrana di Francia, Marie-Antoinette. Posso garantirvi che, per quella posizione, nessun altro era in fila…